Poco serve fare retorica fine a se stessa in un giorno come questo. Il 19 luglio di ogni anno ricordiamo la scomparsa di un uomo buono, onesto, giusto, che combatteva per ideali alti ed è caduto sotto i colpi del sopruso, della violenza, della sopraffazione mafiosa. Paolo Borsellino aveva proseguito la lotta ingaggiata dal suo amico di sempre e collega, Giovanni Falcone, e del loro maestro, Rocco Chinnici, uomini dello Stato che hanno pagato con la vita il rispetto dei doveri che si erano assunti. Il 19 luglio 1992 la mafia annientava l’ennesimo servitore della Patria, con un’autobomba che sventrò via D’Amelio e scosse l’Italia intera, ormai consapevole che era “tutto finito”, come disse un disperato e sconsolato Antonino Caponnetto, colui che aveva costituito il pool antimafia, colui che considerava Falcone e Borsellino come due figli.
Paolo Borsellino credeva veramente in quello che faceva, non era uno stralunato dipendente pubblico che eseguiva le sue mansioni senza porsi interrogativi sul valore di quell’impegno. Era un uomo vero, che metteva il cuore e la passione nella sua attività di giudice in una terra sventurata e difficile come la Sicilia. Lo testimonia la sua ultima intervista, in cui confessò di essere consapevole del pericolo cui era esposto. Ma questo rientrava nelle regole del gioco, il rischio, la possibilità, o “financo la certezza” che l’esposizione totale in questa battaglia impari avrebbe potuto costargli caro.
Ho compreso la straordinaria umanità di un uomo prestato alla Giustizia leggendo le pagine del libro “Il labirinto degli dei” di Antonio Ingroia, magistrato a Palermo, erede di Falcone e Borsellino nella lotta alla mafia, che lo vede oggi tra i protagonisti più attivi. In questo testo un capitolo è dedicato alla triste vicenda di Rita Atria, testimone di giustizia, che aveva trovato in Paolo Borsellino un padre, oltre che un uomo di Stato cui appoggiarsi con estrema fiducia nel momento di massimo dolore e desolazione (lei, di famiglia mafiosa, doveva raccontare ai magistrati gli affari del suo clan per arrivare a individuare gli assassini di suo padre e suo fratello). Paolo l’ha protetta e consolata, le ha dato le sue attenzioni, le ha mostrato il volto umano della giustizia, che non è solo manette, interrogatori bruschi e processi con le telecamere puntate in faccia ma è vicinanza, appoggio psicologico, comprensione. Si era creato un legame speciale tra il giudice e la sfortunata adolescente (aveva solamente diciassette anni), talmente speciale che appresa la notizia dell’attentato di via D’Amelio la giovane si tolse la vita, gettandosi dal palazzo in cui abitava a Roma.
Questa storia terribile di legami, sofferenza, sconforto è la prova tangibile della grandezza di un uomo che non si è mai risparmiato nella sua carriera. Anteponeva la sicurezza degli altri, il bene di un popolo, la Giustizia alla sua vita, ai suoi interessi. Paolo Borsellino è stato un martire. Sapeva che la mafia sarebbe arrivato a lui, ma non si è tirato indietro, non ha provato a fuggire. Sapeva di essere rimasto solo, ma ha combattuto fino in fondo la sua (la nostra) giusta battaglia.
Ai martiri si deve rispetto, riconoscenza, gratitudine. Ai martiri che hanno lottato in nome di un’idea civile di Giustizia, di libertà (una terra dove regna un tiranno non è libera) dobbiamo guardare come esempio quotidiano, perché la mafia cresce con il nostro atteggiamento di indifferenza e di egoismo.
Che la sua morte (così come quella di tutti gli altri) non sia stata inutile. Solo così possiamo onorarlo davvero.
Stefano Barbero